Un calcio canavesano che necessità di un passo avanti importante, che può essere compiuto solamente quando le realtà della nostra zona capiranno che bisogna unire le forze e lavorare all’unisono. E’ il messaggio, forte e chiaro, lanciato da Dario Dighera, classe 1972, giocatore prima ed allenatore poi che vanta un curriculum di assoluto livello.
Il tecnico di Vialfrè, che nelle ultime annate ha lavorato tanto all’estero, in particolare nell’Europa dell’Est ed in Asia, analizzando il momento vissuto dal mondo del football locale rimarca la necessità di andare oltre i vecchi “campanilismi”.
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“La mia non è dietrologia, ma analisi del periodo che stiamo trascorrendo – spiega Dighera – Nei primi anni 2000 abbiamo avuto realtà che si sono affacciate e che hanno fatto anche bene nel mondo del calcio professionistico italiano. Due su tutte. Ivrea e Canavese. Purtroppo poi, per una serie di motivi, si è perso tutto. Di lì non si è più riusciti a ricominciare, secondo me, proprio perché non si è lavorato ad un progetto unitario”.
Non manca la qualità: “Ci sono tanti club che lavorano bene, che stanno puntando sui giovani e questa è una buona cosa. Però, ripeto, ognuno lavora sul proprio singolo obiettivo. Un territorio di 250mila abitanti come l’intero Canavese potrebbe secondo avere, e lo meriterebbe, almeno un club di calcio tra i professionisti”.
Per Dario ad impedire lo step necessario non vi è la mancanza di soldi dettati al periodo che stiamo vivendo: “Non credo dipenda da quello. Nel senso, che certamente ci vuole denaro ed una base economica il più possibile solida, ma per arrivare a questo prima bisogna progettare. Se lo si capirà e si riuscirà a fare questo “salto”, allora il Canavese tornerà ad avere un importante punto di riferimento per tale sport”.
A livello personale, Dighera continua a lavorare per cercare di crescere personalmente in maniera costante: “Adesso per un periodo sarò in Italia, ma sto valutando alcune offerte, anche una dall’Europa, di un club di nome, per una collaborazione a livello giovanile. E’ vero, lavoro costantemente per accrescere il mio bagaglio tecnico, perché non si finisce mai d’imparare. A chi vuole fare l’allenatore dico che applicarsi, studiare, prendere i patentini e le licenze sono passaggi importanti per stare al passo con i tempi e professionalmente essere pronti a dare il proprio contributo in tutti gli ambienti”.
Da quella “prima volta” sulla panchina di Colleretto Giacosa, in Terza Categoria, di strada il canavesano ne ha fatta molta. “Un po’ per fortuna, un po’ per bravura, ma soprattutto per la voglia di dimostrare e dimostrarmi di poter stare a certi livelli, mi sono impegnato e continuo a farlo non dimenticando da dove ho iniziato. E’ stato importante, come importante è cercare di spostare l’asticella sempre un po’ più su, per capire dove arrivare”.
Quindi il messaggio è chiaro: “Inseguire i propri sogni si può, ma bisogna anche avere la forza di volontà di andare oltre e di non accontentarsi. Purtroppo nel calcio nazionale ci sono delle situazioni che ti fanno capire che qualcosa va cambiato. I giovani, per esempio: perché molte squadre professionistiche puntano sugli stranieri e non sui ragazzi italiani? Prima di tutto per una questione di mentalità e di predisposizione dei ragazzi che arrivano dall’estero, che per molti versi sono più “adulti”, perché abituati ad essere indipendenti, ad uscire di casa quando sono poco più che adolescenti”.
“Non è un aspetto secondario, perché unito alla voglia di emergere e di sgomitare per migliorare spesso porta a preferirli ai nostri atleti in erba. Anche qui, se sapremo lavorarci le cose faranno in modo di migliorare e di portare più ragazzi a dire la loro tra i professionisti”.
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